di Brunella Basso
La mia insegnante di filosofia del liceo ci disse un giorno: “arrivare alla maturità senza aver letto certi libri è come arrivarci da focomelici”, poi ci fornì una lista di titoli. Quell’elenco, tranne rare eccezioni – Il gabbiano Jonathan Livingston, La casa degli spiriti, Il piccolo principe, Cent’anni di solitudine ma vado a memoria e potrei sbagliarmi – includeva titoli che probabilmente già ai tempi di mio padre un professore medio riteneva “doveroso” far leggere prima dell’esame di maturità, prima cioè di diventare adulti. I libri in questione individuavano il canone culturale in voga ininterrottamente dai tempi di Gentile: filosofia, letterature classiche, i russi, i francesi e gli italiani fino a Pirandello (in quegli anni Calvino veniva proposto come oggi Rodari, non oltre la terza media e Pavese e Vittorini al massimo meritavano una targa in qualche rione di nuova costruzione ma leggerli a scuola era come pensare di invitare Bono Vox a suonare alla festa di fine anno). Prima considerazione: un’espressione come quella usata dalla mia insegnante oggi attiverebbe –come minimo – un’interpellanza parlamentare del Moige per l’uso irriguardoso del termine “focomelico”, ma tant’è. Quello che credo importante, però, è il ricordo dell’effetto che quella lista fece a me e a molti miei compagni. Sono fortunata perché ho amato la lettura da quando ho memoria, eppure- di fronte a quella che Eco avrebbe chiamato la “vertigine della lista”1,mi sentii schiacciata, dalle aspettative (“davvero si possono leggere tutti entro l’estate?”) e dalla sensazione di essere stata gettata in un mare immenso, senza boe, né luci per l’orientamento (“da dove conviene iniziare?). I miei compagni si dividevano tra gli obbedienti che non avrebbero rifiutato nemmeno i lavori forzati per compiacere un’insegnante e la maggioranza che valutava la selezione rispondendo a una sola regola: “il più corto”, che poi il più corto potesse essere Morte a Venezia, Il fu Mattia Pascal, Sonata a Kreutzer, Candide o L’educazione sentimentale poco contava, bisognava farlo, si sarebbe fatto ma che almeno durasse poco!
Con questi precedenti, giunta dall’altro lato della cattedra, mi sono sempre mossa con cautela di fronte alle proposte di lettura, soprattutto di fronte ai “mostri sacri”, quei libri cioè che, per pre-giudizio comune(“un ca-po-la-vo-ro vs un polpettone) o per tradizione culturale vanno trattati con le pinze. Perché “sbagliarne” uno significa mettere una diga invece che aprire un corso, creare sbarramenti che lasciano autori al palo per anni. Così, nella didattica, cerco spesso dei libri-ponte, dei libri-scivolo che s’inseriscano in una scia che parte da lontano e scatenino un contagio che faccia venir voglia di sapere quel che c’è dietro di loro, quello che hanno letto e amato gli autori che li hanno scritti. Con un libro del genere abbiamo giocato quest’anno a “La pagina che non c’era”, un libro suggeritoci da Paolo Zanotti, che della Pagina era rimasto amico sincero e corrisposto, il romanzo di Andrea Tarabbia, Il demone a Beslan. La cronaca della tragedia di Beslan, i tre giorni in cui un gruppo di terroristi ceceni tenne in ostaggio più di 1100 persone in una scuola e i 334 morti che si lasciò dietro sono “il fatto inaudito” quello per cui vale la pena raccontare una storia, quando “una norma (morale o di probabilità o le due insieme) è stata violata”2. Mi ha fatto compagnia nell’incontro con Andrea Tarabbia Anastasia Eder, una studentessa moldava del Liceo Pitagora di Pozzuoli, che in una scuola come quella di Beslan frequentava le elementari, nel 2004, e che gli ha chiesto, scossa, se si potesse dare la parola a un carnefice per farsi raccontare una storia, se le radici del male possano essere narrate da chi le ha nutrite.Tarabbia le ha risposto con un libro che non è una confessione ma un bilancio e ci parla da molto più vicino, nel tempo -perché il 1 settembre del 2004, il giorno dell’attacco alla scuola n. 1 di Beslan ce lo ricordiamo tutti e nello spazio perché la scuola – sia essa un luogo di lavoro quotidiano, di studi o solo un cassetto della memoria è per tutti un porto sicuro.
Quello di Tarabbia è, a mio avviso, un esempio perfetto di libro-ponte, è pieno di altri libri, di letteratura alta e s‘inserisce in quella tradizione in modo mimetico “facendo parlare i classici e facendosi posto tra loro” per dirla con Todd.3
1 Umberto Eco, Vertigine della lista, Bompiani, 2009
2 Franco Moretti, “Il secolo serio” ne Il romanzo. La cultura del romanzo, vol. I, pp. 689-749, Einaudi, 2002.
3 Si veda il bel saggio di William M. Todd “Il contrappunto russo” ne Il romanzo. Storia e geografia, vol. III, pp. 399-418, Einaudi, 2002.