Il dolore e la parola

Riflessioni e spunti operativi sul testo di Andrea Bajani “Se consideri le colpe”

di Delfina Curati

In un’intervista di qualche tempo fa ad Andrea Bajani, che ho visto in preparazione dell’incontro di presentazione del suo libro, il giovane autore stigmatizzava una tendenza diffusa nella scuola italiana in fatto di letteratura: quella di occuparsi quasi esclusivamente di ‘morti’, di restare “tre metri sotto terra”. Trasparente (e urtante) l’allusione, incontestabile il giudizio. Poi però succede che una buona idea riesca a trovare ascolto e spazio, pur tra mille difficoltà, in un mondo della scuola forse meno impermeabile e ingessato di quanto appaia a prima vista, trasformandosi in buona prassi e nell’occasione per un ripensamento più generale di ciò che si intende per educazione linguistica e letteraria a scuola.

L’interesse, la curiosità e l’entusiasmo che abbiamo riscontrato nei ragazzi durante gli incontri con gli autori, così come la quantità di prove, in costante aumento, che sono da poco arrivate al comitato organizzatore del concorso sono la conferma più convincente che la strada intrapresa è quella giusta.

Il romanzo di Andrea Bajani Se consideri le colpe, pubblicato da Einaudi nel 2007, ha riscosso notevole successo tra gli studenti che hanno partecipato al concorso, il che costituisce senz’altro un valore aggiunto per un testo che, da diversi punti di vista, può offrire agli insegnanti una serie di interessanti piste di lavoro.

Ecco la storia. Lorenzo atterra in Romania per occuparsi dei funerali della madre, che non vede da tempo. È lei l’interlocutore esplicito della voce narrante in prima persona del protagonista. Tralasciando le implicazioni direi socio-antropologiche che il contatto con la Romania evoca, e che il romanzo descrive o lascia intuire in pagine di notevole suggestione1, il viaggio di Lorenzo si configura scopertamente e innanzitutto come una ricerca, una quête direbbero i francesi, nel proprio passato: attraverso il gioco dei piani temporali che attraversa tutto il libro, Lorenzo ricompone la trama di un’infanzia segnata dall’assenza. La figura della madre Lula emerge dalle frange della memoria in brevi momenti di condivisione, gioiosa e a tratti rabbiosa, intervallati dal vuoto pneumatico di una lontananza che si fa via via abbandono. La presenza discreta e goffa di un non-padre con cui Lorenzo si trova a condividere quasi per caso una quotidianità inerte e silenziosa non può servire a riempire i buchi, a dare un senso a quell’assenza.

Da questo punto di vista, mi pare, il libro si può anche intendere come un cammino di riconciliazione del giovane oramai adulto con quel bambino abbandonato, una sorta di redenzione postuma che comincia quando tutto è già finito. Una redenzione perciò non illuminata: la sensazione quasi asfittica di tristezza che pervade il romanzo ne è la prova più evidente.

A prescindere, però, da queste ed altre riflessioni che si possono fare sui contenuti della storia, sulla struttura narrativa che la racconta, nonché sulla dialettica tra vicenda privata e spaccato sociologico che attraversa il libro, vale la pena di soffermarsi brevemente su alcuni aspetti relativi alla resa stilistica del testo e ai procedimenti retorico-espressivi che l’autore mette in campo: qualche sondaggio in questa direzione mi pare utile non solo a evidenziare le qualità intrinseche del romanzo, ma anche e direi soprattutto a fornire agli studenti e ai docenti interessati al libro qualche suggerimento spendibile nel lavoro di analisi e riscrittura del testo. Si è detto che al centro, o meglio al fondo della storia c’è un dolore. Ebbene, la condizione per affrontare questo dolore, per entrarci dentro, per poterlo dire, è scarnificare la parola che lo esprime, che quindi si fa asciutta e brutalmente anodina; è incapsularlo in certe similitudini e metafore di rara potenza2; è raccontarlo dietro il vetro del sarcasmo, dell’ironia dissacrante3. La cosa notevole è che questo ‘trattamento’ del dolore, la sua particolare espressione sulla pagina, sembra nascere paradossalmente da un senso di pudore di fronte alla sua enormità e indicibilità. Ed è per questo che il lettore è portato ad accettarlo e a rispettarlo, anche quando si fa più urtante4.

A me sembra che questo aspetto rappresenti la cifra specifica della scrittura di Bajani, e contemporaneamente possa stimolare una riflessione nei lettori (e ancor più negli ‘imitatori’) sulla responsabilità che ci si assume quando si sceglie di raccontare il dolore, sulla necessità di farlo decantare e, perché no, farlo passare attraverso il filtro della letteratura. E in tempi di dolore esibito, di spettacolarizzazione e banalizzazione della sofferenza, dove l’unico strumento retorico usato è l’iperbole, abituare gli studenti a maneggiare metafore e similitudini, possibilmente con delicatezza, mi sembra una gran bella prospettiva.

1 Finezza descrittiva e forza evocativa mostra l’affresco sociologico che fa da sfondo al viaggio di Lorenzo: è il mondo degli industriali italiani che hanno delocalizzato in Romania, con la loro volgarità arrogante e sfacciata, i loro fuoristrada, il loro approccio proprietario verso le donne e i lavoratori rumeni. Giganteggia in questo quadro il personaggio di Anselmi, il socio d’affari ed ex-convivente di Lula. In generale appare interessante e inedita la prospettiva con cui è presentato il rapporto tra Italia e Romania.

2 Qualche citazione sparsa a titolo esemplificativo: “la mia stanza che viaggio dopo viaggio diventava il mappamondo della tua assenza quotidiana” (p.30); “Mi ha chiesto se volevo vederti un’ultima volta. Dopo tutto questo tempo non ce l’ho fatta, a dire di sì. Il tuo viso avevo tentato di ricostruirlo ogni anno il giorno di Natale, misurando la tua voce in quell’unica telefonata, come un cieco che mette le mani in faccia alle persone” (p.31); “Il ristorante era sulla terrazza di un albergo di lusso, nel centro di Bucarest, incastonato tra i palazzi come un dente d’oro in mezzo a una bocca trascurata” (p.38) “L’aveva lasciato lì con una firma, il cognome, come una lucertola che lascia la coda e va da un’altra parte a farsela ricrescere” (p.53); “Mi sono seduto accanto a un uomo che non avevo mai visto, che era lì per te. La sua pelle sudata e il profumo forte del suo dopobarba erano tutta la nostra estraneità” (p.63); “mi sono asciugato col tuo accappatoio, lavato i denti con il tuo spazzolino, che era rimasto sul lavandino come una bandiera logora su una roccaforte abbandonata” (p.106).

3 Ancora qualche esempio. “Quando tornavi a casa dicevi sempre C’è molta sofferenza, in quei posti. Ma era proprio lì che bisognava andare e portare serenità, a eliminare malessere, sconforto e chili di troppo” (p.28); “Non si cambia chiesa […] Timeout, ha detto mettendo una mano a tetto sopra l’altra. Timeout, ha ripetuto lasciandosi andare contro lo schienale del divano. Gli operai avrebbero fermato i lavori di ristrutturazione per un’ora o poco più. Giusto il tempo di mandarti in pace all’altro mondo.” (p.35)

4 A questo proposito non si può non citare uno dei passaggi a mio avviso più forti del romanzo. Siamo all’inizio del capitolo dedicato al funerale di Lula: “Te ti hanno spedito col furgone, dopo averti inchiodato alla bara dentro casa e averti lasciato in consegna all’operosa e nerboruta burocrazia delle pompe funebri. I morti hanno cadaveri a tenuta stagna, perché ci sono i sarti che si adoperano a metterti le toppe a tutti i buchi. È lì che si muore veramente, quando anche il corpo non ha più aperture sul mondo e tutto si trasforma in un divieto d’accesso. Ti mettono i tappi per non farti suppurare, perché il corpo smetta di rilasciare all’esterno i propri umori. Poi ti tolgono anche gli odori, i tuoi segnali di fumo, e ti insonorizzano di un olezzo già profumatamente postumo. La cassa te la chiudono quando ancora non ci sei finita dentro, quando finalmente l’ultimo orifizio è infarcito di chissà che cosa. Tra poco sarai una bara con dentro un’altra bara, una bella matrioska per l’aldilà. Adesso però, che sei incellophanata, non sei più un essere umano. Grazie al Cielo c’è qualcuno che da morto si adopera per farti diventare un Cicciobello, che non suda, non sanguina, non rilascia il pus e ha il buon costume di non farsi uscire la cacca dal sedere, perché ha un buco del culo finto, otturato. E adesso che sei diventata bambola, possono metterti indosso quello che gli pare. Ti infilano le braccia nelle maniche e ti tagliano le unghie dei piedi prima di fasciarli con le calze che più ti sono congeniali per l’evenienza del decesso. Qualcuno ti solleva la testa e ti tira indietro i capelli con la spazzola, come si fa con le Barbie. Adesso sei splendidamente disconnessa dal mondo esterno e pronta a saltare sul furgone per andare a farti pregare in chiesa e poi bruciare prima nel forno e poi, chissà, forse nell’inferno. Adesso sei pronta, e chiusa nella bara sei diventata la scatola nera di te stessa”. (p.62)

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